Ha aperto meno di un mese fa e la mostra Cuba. Tatuare la storia continua a far parlare di sè. Pubblicità in giro per la città, recensioni su quotidiani e settimanali…insomma, mi sono lasciata conquistare dall’ottima comunicazione della mostra (scusate, deformazione professionale :)) e sabato, tra un giro di shopping e l’altro, sono andata al PAC per vederla.
Si tratta della più grande mostra dedicata all’arte contemporanea cubana: 31 artisti cubani noti in tutto il mondo che, con le loro opere, si impegnano a raccontare la cultura artistica – e non solo – del Paese. L’esposizione mi ha lasciata…scioccata? senza parole? confusa? A distanza di 24 ore ancora non lo so.
All’ingresso viene dato ai visitatori un piccolo libretto all’interno del quale sono spiegate le opere di ogni artista: una vera fortuna perchè altrimenti avrei vagato per le sale senza capire nulla! La maggior parte delle opere rappresentano spesso una denuncia: del sistema politico, del comunismo, delle torture, delle violenze, dell’immigrazione. Qui di seguito vi parlerò di quelle che secondo me sono le più forti.
Prima ancora di entrare al PAC vi ritroverete a camminare tra alcune gabbie: sono state realizzate da Humberto Diaz che vuole dare l’impressione di essere in una prigione. Ma guardando le inferriate da un’altra prospettiva, ovvero dall’alto, ho letto che le strutture formano delle enormi lettere che compongono la parola IDEAS.
“Do you want to by my misery?” è la frase incisa nel muro da Luis Gomez Armenteros che si riferisce alla mercificazione dell’arte, di oggetti e di persone.
Sulla destra invece c’è l’opera Dialectic di Tony Labat: si tratta di una rivistazione di un’altra opera del 1978. Un muro rosso sotto il quale è stata appoggiata una fila di pagnotte a rappresentanza della frase “il comunismo è pane”, espressione tratta da una citazione di Marx.
Aquì se escucha una musica del cuerpo di Tonell è una parete di mattoni grigi in calcestruzzo che si pone come barriera tra i desideri e le mete da raggiungere.
Reinier Nande espone Interferencia, un muro bianco sulla cui superficie si articola un collegamento di tubi dai quali, a seconda di dove ci si avvicina, si sentono la voce di Raul Castro e quella di Barack Obama: ma l’audio ha delle interferenze a rappresentare l’incomunicabilità tra i due Paesi.
La prigionia e la schiavitù sono invece i temi delle opere di Carlos Martiel: nel video El Tanque l’artista viene rinchiuso in due barili di metallo che poi vengono saldati, mentre in Integracion l’artista lecca il pavimento della galleria con gli occhi chiusi ricoperti di escrementi.
Kcho invece usa materiale di recupero proprio per l’importanza dovuta alla sua storia passata. E così Estelas en la mar mi abrigo y mi sostien (Mariana) ha una forma antropomorfa formata da un cappotto nero a rappresentare il corpo e una piccola barchetta in legno come testa: è l’immagine del balseros cubani (emigrati che sfidano il mare con imbarcazioni precarie).
Le “opere-gioiello” di Grethell Rasua hanno provocato in me e nelle mie compagne di visita, prima ilarità e poi ribrezzo: l’opera Con tu proprio sabor consiste in decine di teche nelle quali, come in una boutique di gioielli, sono esposti oggetti creati personalmente dall’artista e costituiti da materiali assemblati con liquidi e scarti corporei delle persone che li hanno commissionati: un ciondolo all’interno del quale c’è l’impronta di un bacio, in un altro invece è racchiusa una lacrima, un bracciale e un anello al cui interno ci sono scritte fatte con il sangue. Ma l’artista utilizza anche scarti più…schifosi (fatemi passare il termine!) di cappeli, saliva e sangue: escrementi, sperma, vomito, verruche…ok, mi fermo qui. Altra provocazione è quella di Angel Delgado: La esperanza es lo ultimo que se esta perdiendo è una performance del 1990 e al PAC sono esposte le foto di quel giorno. Delgado è ripreso nell’atto di defecare su una copia del Granma, il giornale ufficiale del Partito Comunista cubano: un’azione che è costata sei mesi di prigionia all’artista.
E poi ancora ci sono le foto dei cadaveri delle vittime di violenza alle quali si sovrappone l’immagine dell’artista Susana Pilar Delhanate Matienzo e la celebrazione del ruolo della donna afrocubana raccontata dalle polaroid di Maria Magdalena Campo-Pons.
Insomma è una mostra particolare che forse era da vedere accompagnata da una guida: non posso dire che mi abbia entusiasmato, ma probabilmente il motivo è che non ero pronta ad affrontarla. Certo, l’arte parla della cultura del Paese, l’arte è uno strumento sia di celebrazione che di denuncia ma mai nella mia vita mi sono trovata di fronte a così tante provocazioni. Non è una mostra facile ma se volete mettere alla prova voi stessi, se volete rapportarvi ad un’arte di denuncia forte e che non ha paura di scandalizzare, allora andateci e poi, raccontatemi le vostre impressioni.
FINO AL 12 SETTEMBRE 2016
ORARIO
Da martedì a domenica dalle 9.30 alle 19.30
Giovedì aperto fino alle 22.30
BIGLIETTI
Intero: 8 euro
Ridotto: 6,50 euro
Ogni giovedì dopo le 19.00 il biglietto si paga solo 4 euro
COME RAGGIUNGERLA
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